Intervista a Benito Cuppari, inventore del Barracuda
Genova «Bourbon, bitter campari, succo di limone. Tutto nello shaker e poi in una flute guarnita con fetta d’ arancio e ciliegina». Sorride: «Si chiamava Cocktail Michelangelo, ovvio. Era rosa, un po’ amarognolo. Ci ho vinto anche lo Shaker d’ oro a Saint Vincent». Ma Liz Taylor e Richard Burton al “Michelangelo” preferivano altro: «Due martini per aperitivo e poi, dopocena, Dom Perignon per lei, bourbon per lui. Mai visti andar via ciondolanti, però. Sorridevano, tornavano in cabina tranquilli. Lei una volta mi ha detto: Benito, sai perché veniamo da te? Perché non ci guardi nemmeno. E lei era veramente bella, gentile, morbida, dolce. Era venuta prima con Eddie Fischer, poi con Burton. Ma con Fischer faceva un po’ la star, era più rigida. Con Burton no, era veramente una ragazza semplice, a suo agio. Stupenda, sempre».
Succedevano tante cose nei sette bar della Michelangelo. Benito Cuppari, capo dei barmen della grande nave per sette anni («ma in realtà io ci ho lavorato da prima del varo, avevo collaborato proprio alla progettazione dei bar, con gli architetti e gli arredatori») sorride mentre, dal grande belvedere affacciato sulla città antica guarda il mare e il porto di Genova, da dove la Michelangelo salpò per la prima volta quarant’ anni fa, il 12 maggio1965. Prestigioso imbarco, il clou della carriera da barista sull’ oceano, per lui che dal ’54 aveva cominciato ad andare su e giù per le Americhe su tutti i grandi transatlantici italiani: Augustus, Giulio Cesare, Leonardo Da Vinci, Colombo, Conte Grande, Raffaello. E Michelangelo, la più amata.
«Era una bella nave, più bella della Queen Mary. Un vero albergo a cinque stelle, le lenzuola di lino cambiate tutti i giorni, la cameriera che senza bisogno di venire richiamata andava a prendere lo smoking e lo faceva trovare pronto in cabina, perfettamente stirato, insieme con la frutta sulle fruttiere d’ argento. E ci lavoravano grandi professionisti, a tutti i livelli: la ristorazione, ad esempio. Buonissimo il cibo, ricercatissima la presentazione: in prima classe ogni piatto arrivava con le campane di servizio individuali, d’ argento. Hanno raccontato grandi bugie, dicendo che non si sarebbero più fatte crociere, l’ hanno venduta come ferrovecchio. Hanno smantellato un patrimonio… Sì, mi ha fatto male questa fine, e non solo a me. Al Pier 94 di New York, il molo di attracco, ho visto piangere i passeggeri quando ci hanno detto «la nave torna a Genova e non parte più». Per i protagonisti del boom italiano un viaggio sulla Michelangelo, magari con le attrici e i cantanti da intravedere giusto al bar o al ristorante, era il segno della promozione sociale raggiunta.
Loro, le star, solo raramente si concedevano: «Mi ricordo Petula Clark, che cantò una sera soltanto per l’ equipaggio». Ma ci fu anche un Burt Lancaster con il mal di mare: «Prendemmo una tempesta, la nave si inclinò di ventotto gradi. Lui rimase otto giorni in cabina». O Renata Tebaldi, regina dell’ opera, «che era completamente succube della madre: le sceglieva persino il menu». E Alberto Sordi, celebre anche tra i 720 dell’ equipaggio tutto, dal comandante al mozzo, per una certa difficoltà a mettere la mano in tasca e trarne qualche spicciolo. «Ma la cosa che aveva realmente fatto scandalo è che si facesse rammendare i calzini dalle cameriere. Un attore famoso come lui~». Si pagava in dollari, nei bar, e a parte le mance le bevande erano l’ unica spesa da prevedere a bordo, perché traversate e crociere avevano una tariffa tutto compreso.
«Ma i prezzi erano concorrenziali, tutto fuori dogana. Sessanta centesimi un cocktail, e una bottiglia di Dom Perignon per otto dollari». Non facevano proprio caso ai conti i full cruisers, quelli che in prima classe non solo facevano la traversata, ma da un anno all’ altro prenotavano la crociera di ventuno giorni, la round trip: partenza e arrivo a New York e nel mezzo Madera, Algeciras, Palermo, Napoli, Genova, Cannes, Barcellona, Lisbona. Fedelissimi anno dopo anno, per sette anni. «Miliardari certo, californiani soprattutto, vicepresidenti di banche e grandi società, la padrona della Camel con il marito… Notti intere a giocare, bere. All’ alba il marinaio scaldava la piscina a ventotto gradi, c’ era il bagno finale: alle sei e mezzo facevo servire omelette e champagne. Alle sette e mezzo tutti a letto».
Restavano chiusi ben poco, i sette bar della Michelangelo. In funzione dalle 10 alle 14, riposo sino alle 16.30. Poi di nuovo via con gli shaker, fino alle tre, almeno. Con un sorriso per tutti, ascoltando confidenze da non raccontare mai: discrezione come stile di vita e di lavoro. «Tantissime cose non le ha mai sapute nemmeno mia moglie. La discrezione era una dote che a bordo nessuno infrangeva, nemmeno dove si lavavano i piatti sentivi un mormorio, un pettegolezzo. Veniva Thomas Foglietta, senatore di Filadelfia che è tornato a trovarmi qui a Genova quando era ambasciatore di Clinton in Italia. Faceva la crociera di ventun giorni, si sedeva davanti a me per ore, e parlava di Filadelfia, delle lotte per diventare sindaco… beveva tranquillo, raccontava. E Charlie Lasserse, il vicepresidente della Morgan Bank: grandissimo. In quegli anni era proibito importare oro negli Usa, lui faceva la crociera con gli sbarchi a Napoli e a Venezia. Andava da un orafo, si faceva fare un leone di San Marco da cinque chili. Ogni viaggio, un leone. Come opera d’ arte poteva importarli».
Il comandante sulla plancia di comando («perché allora il comandante era il padrone della nave e stava ad occuparsi della nave, non ai ricevimenti») il capo barman sulla sua, il Bar Nero. «Stupendo. Tutto in pelle nera, un bancone lungo ventotto metri con un disegno michelangiolesco al centro. Sette persone di servizio. Sì, era il mio preferito. Stavo lì, in genere, poi facevo qualche giro, avevo un “secondo” in ogni bar… in serata mi spostavo magari al night: bello, sulla piscina, con pista da ballo e orchestra». Cinquecento passeggeri in prima classe? Per il cocktail di benvenuto significava preparare 1500 cocktails in un’ ora e un quarto. «Martini, Manhattan, Champagne cocktail, Così per partire, con i tre quarti dei camerieri impegnati. Poi c’ erano quelli che ti chiedevano gli special orders, whisky o altro». Il modello della Michelangelo, regalo di fine imbarco, lo guarda dall’ alto del bancone dell’ american bar dove ora lavora il figlio. «Ci tenevo tanto, gli architetti me l’ avevano promesso. Ma c’ è un’ altra cosa a cui tengo, la dedica su un menu che mi ha fatto Peynet, il disegnatore: la ricetta di un cocktail, il bouquet dell’ amore, l’ ha chiamato. Un po’ di tenerezza, un po’ di mughetto portafortuna, tra gli ingredienti». Dopo la Michelangelo, basta con il mare e le crociere? «Per il lavoro sì, sono rimasto sulla terraferma. E di crociere non ne parliamo: mi hanno invitato tante volte, ma a vedere navi jukebox e cibi congelati, io proprio non ci vado».